Il procedimento penale, con tutti i suoi riti, è spesso oggetto di attenzione per i media ed al centro delle cronache. Certamente il controllo dei media sui procedimenti penali è reputato fondamentale per la democrazia e favorisce garanzie contro possibili “abusi della giustizia”.
Sempre più spesso, però, quella che dovrebbe essere una forma di garanzia, si converte in una sorta di condanna preventiva del reo; tutto ciò si realizza disinteressandosi delle regole processuali, violando la riservatezza e la salvaguardia della verginità cognitiva del giudice, il quale viene sommerso da informazioni attinenti le indagini, in netto contrasto con un processo liberale a tendenza accusatoria.
Inoltre, riportando indistintamente sui giornali e anche in rete gli atti investigativi, si viola il diritto alla privacy dell’indagato e dei terzi coinvolti.
Oggi con la parola privacy si indica qualcosa che merita di essere tutelato, un diritto che dovrebbe essere difeso con appositi mezzi.
Durissimo è il contrasto tra la persona, che prova a tutelare il proprio diritto alla privacy, e la collettività che tenta di conoscere ciò che è di interesse pubblico; ed è inevitabile che, il modo in cui viene esercitato il diritto-dovere di informazione, da parte dei media, finisca con interferire in maniera non irrilevante con delicati equilibri.
In più oggi, c’è anche la Rete internet, una realtà nuova che sta sublimando la libertà auspicata nell’articolo 21 della nostra Costituzione e che senza dubbio ha ampliato il contrasto tra ciò che è pubblico e ciò che è privato.
Probabilmente la nostra attuale normativa è da svecchiare e aggiornare al fine di potersi adeguare alla velocità dei nostri tempi ed adattarsi alle nuove esigenze, onde evitare un continuo scontro tra la normativa che regola il segreto processuale e quella che regola la libertà di stampa e il diritto di cronaca.
In generale, il segreto, nel codice vigente investigativo e nel codice del 1930 istruttorio, è stato da sempre uno degli istituti più tormentati del processo penale, con vari tentativi di rimodulazione dell’impianto normativo che lo sorregge.
Sul piano processuale, in primo luogo, sussiste il divieto, generale ed astratto, stabilito dall’art. 329, comma 1, c.p.p., il quale prevede che “gli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria sono coperti dal segreto fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari”.
Inoltre, l’art. 329 c.p.p., si limita a stabilire che gli atti d’indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria sono coperti dal segreto, per cui bisogna richiamare sia l’art. 326, comma 1, c.p., che sanziona la rivelazione e agevolazione di conoscenza di notizie d’ufficio le quali debbano rimanere segrete, sia l’art 114 c.p.p. Infatti, in ordine alla pubblicazione degli atti coperti dal segreto, sul piano processuale, il divieto è sancito dall’art. 114, comma 1, c.p.p. ed il mancato rispetto di tale divieto di pubblicazione è punito con il reato di natura contravvenzionale previsto dall’art. 684 c.p.. Tale divieto rappresenta il risultato dell’equilibrio trovato dal legislatore tra presunzione di non colpevolezza fino a sentenza definitiva ( art. 27 cost.), salvaguardia della attività e delle funzioni istituzionali della magistratura (arte.101-110 Cost.) e libertà di stampa (21 Cost).
Al primo comma di quest’ultimo articolo leggiamo che “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” e la dottrina giuridica, basandosi sulle sentenze della Corte costituzionale, ha riconosciuto alla libertà di pensiero due facce, una attiva e una passiva: il diritto a fornire informazioni e il diritto a riceverle.
Inoltre il diritto di cronaca non può sacrificare in modo indiscriminato altri diritti costituzionali. Esiste una cronaca lecita e una illecita, e il giornalismo deve tener conto del sempre più consolidato concetto di privacy.
Una forte polemica politica ha riguardato, in particolare, la notevole mole di intercettazioni e soprattutto la diffusione delle dichiarazioni da parte dei mass media . Il nostro codice di procedura penale detta una lunga disciplina di tale strumento tanto efficace quanto invasivo; le intercettazioni, infatti, non sono strumenti per ricavare notizie dalle conversazioni private, ma sono strumenti finalizzati alla raccolta di prove di reati: ciò che viene trascritto deve essere connesso alle indagini. . Occorre poi rilevare che i vari tentativi di modificazioni legislative si sono concentrati sul bisogno di contemperare il diritto di cronaca con la tutela della privacy, e dell’ abuso delle intercettazioni si è detta preoccupata anche la Federazione nazionale della stampa , che però si è sempre battuta contro l’introduzione di un più stretto bavaglio.
Nel noto precedente costituto dal caso Craxi c. Italia (n. 2), l’Italia è stata condannata per non aver opportunamente tutelato la privacy dell’imputato rispetto alla divulgazione del contenuto di intercettazioni telefoniche non pertinenti con l’inchiesta giudiziaria in corso.
Più nello specifico, con tale sentenza , depositata il 17 luglio 2003, la Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia sulla base del ricorso presentato da Bettino Craxi per violazione dell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti umani, che sancisce il rispetto alla vita privata.
La Corte europea dei Diritti dell’Uomo ha osservato che alcune conversazioni rese pubbliche dalla stampa avevano un carattere strettamente privato e che spettava al Governo dare una spiegazione plausibile su come queste informazioni fossero giunte in possesso dei giornali; inoltre non vi è stata una udienza preliminare nel corso della quale le parti ed il giudice avrebbero potuto escludere i brani delle conversazioni intercettate non connesse alle indagini.
In generale, quello che emerge è che in Italia, i rapporti fra giustizia penale e informazione, sono fonte di molteplici tensioni e conflitti. Appare evidente la difficoltà di bilanciare esigenze divergenti, da un lato vi sono i giornalisti che sottolineano di non aver sufficiente libertà per poter compiere il loro lavoro (limitati dal segreto), dall’altro vi sono i magistrati che lamentano varchi troppo ampi nella riservatezza delle inchieste. Indubbiamente il “ segreto” è necessario, ma se anche fosse ridotto al minimo, vi sarebbe comunque qualcosa da rivalere.
Per cui, stando così le cose, obbiettivo di una possibile riforma potrebbe essere quello di stringere la responsabilità attorno a coloro che sono i veri “custodi” del segreto, cioè coloro che rivelano le notizie ottenute per ragioni di ufficio e di servizio; in pratica una rivelazione da parte dell’autore delle indagini, si caratterizza per un maggiore disvalore.
Inoltre, nessuna riforma legislativa può bastare, se non accompagnata da uno sviluppo della professionalità e della sensibilità deontologica degli attori della comunicazione e del processo.
Oltre che un problema giuridico , è una questione professionale, ed è un bene chiamare in causa la deontologia del giornalista. In altre parole, dietro di notizie c’è un professionista, al quale è richiesto di attenersi a regole etiche ed deontologiche precise. Etica e deontologia condizionano dunque la vita professionale dei giornalisti e li impegnano ad essere corretti. Si deve raggiungere un equilibrio diverso fra libertà di fare i cronaca e diritti delle persone. L’esistenza di una professione può garantire il rispetto delle regole, e chi intende fare giornalismo deve rispettare i principi di base , tra i quali vi è diritto alla privacy. Pertanto è necessario che il giornalismo si affermi come attività professionale, affinché la privacy, intesa come diritto alla protezione della propria sfera individuale, possa realizzarsi.
Una concezione più radicata del valore della privacy può cambiare la comunicazione giornalistica; inoltre la democrazia ha bisogno di un’informazione libera ma anche corretta , che si impegna a rispettare la dignità e la privacy degli individui.
Indubbiamente la costante richiesta di informazioni da parte dell’opinione pubblica, da un lato , e la concorrenza dei vari mezzi di informazione, dall’altra, costituiscono un forte incentivo a superare i limiti che vincolano i giornalisti ; non solo quindi dovrebbero sussistere condizioni normative, professionali, deontologiche di non semplice realizzazione, ma il rischio è che la buona informazione risulti fatalmente perdente nella competizione con il sensazionalismo di quella cattiva.
Eppure sarebbe fondamentale avere una informazione giudiziaria “costituzionalmente adeguata”, anche perché una narrazione giudiziaria autorevole restituirebbe autorevolezza anche alla giustizia. La mediatizzazione dei processi, infatti , esercita una pericolosa influenza sulla giustizia ordinaria e sulla fiducia che la collettività vi ripone. Ne deriva che i rischi del processo mediatico sono rilevanti sua per i singoli, che per l’intera società.
Rimediare a questo stato di cose non è assolutamente semplice, nè singoli interventi normativi sembrano poter essere sufficienti, sarebbe piuttosto necessaria una rivoluzione culturale in grado di coinvolgere mass media e magistratura.
Certamente, negli ultimi tempi, la società ha mostrato un maggiore interesse per la tutela della privacy della persona, e si è affermata una cultura del privato (la protezione dei dati), prima inimmaginabile; se si vogliono fare passi in avanti è necessario mettere in discussione vecchi comportamenti ed è nella professionalità che vanno trovate le soluzioni.
Laura Della Neve