Nella prassi giudiziaria, in particolare nei procedimenti di diritto di famiglia, accade spesso che un partner cerchi di precostituirsi elementi di prova a carico dell’altro; la questione assume aspetti problematici quando tali elementi probatori siano stati ottenuti o comunque trattati in violazione della normativa sulla privacy.
Preliminarmente, si rileva che, per integrare una condotta di “trattamento dei dati” è sufficiente anche la loro mera diffusione, e quindi la loro produzione in giudizio. Ne consegue che, è responsabile il coniuge che produce in giudizio dati personali del consorte in violazione delle norme di cui al Reg. UE 679/2016.
In relazione ai dati personali, l’art. 21 del GDPR ha introdotto una deroga al diritto dell’interessato ad opporsi al trattamento dei dati personali, nelle ipotesi in cui vi sia l’esistenza di motivi legittimi cogenti per procedere al trattamento che prevalgono sugli interessi, sui diritti e sulle libertà dell’interessato oppure per l’accertamento, l’esercizio o la difesa di un diritto in sede giudiziaria.
In questo caso, quindi, emergendo un altro diritto di rango costituzionale, il diritto di difesa, il legislatore ammette una compressione del diritto alla privacy, purché l’esplicazione del diritto di difesa sia effettuata secondo correttezza.
In particolare, affinché i dati oggetto del trattamento siano acquisiti in giudizio, essi devono essere: a) reali; b) completi, senza estrapolare solo i contenuti utili per una parte; c) pertinenti e non eccedenti, in relazione al diritto che si intende far valere in giudizio.
Differentemente, la tutela dei dati personali (cd. sensibili) si intende rafforzata. Tali dati non dovrebbero essere oggetto di trattamento, a meno che non sia consentito nei casi specifici delineati dal GDPR, tenendo conto del fatto che il diritto degli Stati membri può stabilire disposizioni specifiche sulla protezione dei dati per adeguare l’applicazione delle norme del GDPR a un obbligo legale o dell’esecuzione di un compito di interesse pubblico o per l’esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento.
Tuttavia, in materia penale, la legge stabilisce all’art. 191 c.p.p., l’inutilizzabilità delle prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge.
La giurisprudenza di Legittimità a Sezioni Unite ha affrontato il tema e, con la sentenza n. 3034/2011, ha sancito il principio secondo cui in caso di contrasto tra il diritto alla riservatezza, tutelato ex art. 2 Cost., e il diritto a difendersi in giudizio, tutelato ex art. 24 Cost., debba prevalere il diritto alla difesa in giudizio, in virtù della sua specialità.
Sul punto, la Suprema Corte con un successivo provvedimento, n. 35296/2011, ha, altresì, precisato che non costituisce violazione della privacy l’allegazione, nell’attività processuale, di documenti contenenti dati sensibili, anche senza il consenso del titolare degli stessi, laddove essa sia necessaria per esercitare il diritto di difesa. A tal riguardo, la Suprema Corte, ha richiamato il principio di diritto secondo cui: “nel processo,, infatti, la titolarità del trattamento spetta all’autorità giudiziaria e in tal sede vanno composte le diverse esigenze, rispettivamente, di tutela della riservatezza e di corretta esecuzione del processo, per cui, se non coincidenti, è il codice di rito a regolare le modalità di svolgimento in giudizio del diritto di difesa e dunque, con le sue forme, a prevalere in quanto contenente disposizioni speciali e, benché anteriori, non suscettibili di alcuna integrazione su quelle del predetto codice della privacy“.
Ne consegue che, la facoltà di difendersi in giudizio utilizzando i dati personali altrui deve essere esercitata nel rispetto dei doveri di correttezza, pertinenza e non eccedenza, per cui la legittimità della produzione deve essere considerata in base al bilanciamento tra il contenuto del dato sensibile utilizzato, ed il diritto di difesa.
Di recente la Suprema Corte di Cassazione penale è tornata nel merito della questione e con la sentenza n. 1822, del 16/01/2018, ha precisato che i dati informatici acquisiti dalla memoria dello smartphone (quali sms, messaggi whatsapp, messaggi di posta elettronica) hanno natura di documenti ai sensi dell’art. 234 c.p.p. Di conseguenza la relativa attività acquisitiva non soggiace né alle regole stabilite per la corrispondenza, né tantomeno alla disciplina delle intercettazioni telefoniche.
In materia civile, invece, non esiste una disposizione di legge in tal senso, ed è quindi difficile delineare una regola generale.
La valutazione circa l’ammissibilità delle prove è lasciata al giudice, ex art. 183 c.p.c., salvo che vi siano disposizioni speciali che prevedano diversamente.
Sul punto è intervenuto il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere (con decreto del 13/06/2013), che in un procedimento di modifica delle condizioni della separazione, si è pronunciato sull’ammissibilità delle prove estratte dai social network, operando una netta differenza tra le fotografie ed informazioni personali tratte dai profili facebook e la messaggistica privata.
Il decreto ha precisato che i social network consentono agli iscritti di creare una propria pagina in cui si possono inserire una serie d’informazioni di carattere personale e professionale, ed in cui si possono pubblicare: immagini, filmati e altri contenuti multimediali; ciò posto, il Tribunale ha ritenuto che le informazioni e le fotografie pubblicate sul proprio profilo non siano assistite dalla segretezza che caratterizza invece quelle contenute nei messaggi scambiati utilizzando il servizio di messaggistica o di chat. In altri termini, nel momento in cui si pubblicano informazioni e foto sulla pagina dedicata al proprio profilo personale, si accetta il rischio che le stesse possano essere portate a conoscenza anche di terze persone non rientranti nell’ambito delle c.d. “amicizie” accettate dall’utente, il che le rende, per il solo fatto della loro pubblicazione, conoscibili da terzi ed utilizzabile anche in sede giudiziaria.
Contestualmente, la giurisprudenza internazionale ed europea è molto attenta nell’attribuire valenza probatoria al materiale reperito sui social network a causa della concreta possibilità di manomissione dei contenuti da parte di terzi e procede, effettuando nel caso di specie, un bilanciamento dei diritti coinvolti.
Nei procedimenti di separazione e divorzio, è pur vero che il giudice gode di ampia discrezionalità nella valutazione delle prove, anche quelle puramente indiziarie che possono essere utilizzate insieme ad altri elementi processuali, ma resta il dubbio circa l’ammissibilità di questo tipo di prova, che potrebbe essere giudicata illecitamente assunta.
In conclusione, se nel processo penale si può affermare con certezza che le prove assunte in violazione della normativa sulla privacy si debbano considerare inutilizzabili, nel processo civile ciò non è disposto preventivamente dalla legge e l’inutilizzabilità non è automatica, ma sarà il giudice a dover valutare caso per caso la loro utilizzabilità, usufruendo del potere discrezionale che gli è concesso dalla legge ex art. 116 c.p.c.
Livia Aulino